Fu così che il vento si trasformò in carezza, e ogni raggio di sole in un bacio. Cuzco.
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di Marcella Cecconi
Lo spettacolo terminò il 20 dicembre. Da quel momento fummo libere di decidere del nostro tempo fino alla data prevista per il rientro in Italia, fissata per una decina di giorni dopo.
Fu così che da attrici diventammo “las turistas”, e ammantate di nuova luce e di fama, salpammo alla volta di Machu Picchu, in una sorta di pellegrinaggio obbligato: “Allora sulla scala della terra sono salito, tra gli atroci meandri delle selve perdute, fino a te, Machu Picchu. Alta città di pietra scalinata, dimora degli esseri che il terrestre non poté celare nelle vesti assonnate…”.
Da Lima prendemmo l’aereo che in breve tempo ci portò a Cuzco, vestite con un abbigliamento marino ed estivo, assolutamente inadeguato. Il mio primo atto in terra andina fu quello di comprarmi un maglione ed un poncho colorato, per pochi soles, al mercato.
Ai nostri corpi fu subito chiaro che avevamo cambiato repentinamente altitudine e clima, e che avrebbero dovuto adattarsi alle nuove condizioni. Essi in parte collaborarono, facendo del loro meglio per armonizzare lo sfasato orologio biologico; in parte reagirono, protestando con prolungati capogiri e nausee, sintomi questi del famoso “sorochi”, il mal d’altezza.
Seguendo le usanze locali andammo da una “guaritrice” che ci diede un rimedio antichissimo e popolare, il mate de coca, una sorta di tè corroborante che si prepara con le foglie della celebre pianta, e che serve a stabilizzare la pressione e ad alleviare i sintomi provocati dall’altitudine. Dopo una breve consultazione, convenimmo sul fatto che l’arzilla vecchietta non fosse una narcotrafficante, e ci affidammo alle sue cure e alla “magia” dell’antica sapienza inca. Il fascino del posto fece il resto, e la bellezza di Cuzco, unitamente alle erbe, vinse in breve tempo ogni resistenza della materia: il battito del cuore rallentò progressivamente, e i pensieri divennero lineari e limpidi, come se venissero ripuliti dall’aria inalata ad ogni respiro.
Fu così che il vento si trasformò in carezza, e ogni raggio di sole in un bacio.
La vista delle montagne agisce fortemente sull’inconscio, rimandando invariabilmente ad un’idea del divino, come ciò che si eleva verso l’alto. Tutto quanto sale ed ascende si riaggancia idealmente alla linea verticale della croce, che esotericamente non è uno strumento di morte e di tortura, ma molto più semplicemente riflette l’incontro di due piani, il materiale e lo spirituale. E’ forse per questo che la mente si acquieta fra i monti, e che le piramidi e gli ziggurat di tutto il mondo assumono le loro sembianze, e vennero costruiti quale tentativo di ri-unire la terra degli uomini e il cielo degli dei. La montagna diviene pertanto un archetipo, il triangolo, simbolo stesso della trinità che compone l’uomo, ovvero corpo, anima e spirito. Quanto detto non è sempre razionalmente presente quando ammiriamo un paesaggio montano, ma l’idea soggiace comunque nel sub-strato della nostra coscienza, indirizzando i nostri sentimenti, e facendoci percepire armonia e bellezza.
Da Cuzco prendemmo un trenino, che stancamente arranca sulla costa della montagna.
La partenza era all’alba e il viaggio durò diverse ore, anche se la distanza da percorrere è inferiore ai cento chilometri. In breve tempo l’entusiasmo per la nuova avventura e lo stupore dinnanzi allo scenario mozzafiato, cedettero il passo alla noia ed una catatonica sonnolenza avvolse tutti i vagoni, come una nebbia che cala in un lugubre paesaggio invernale.
Turisti di tutte le nazionalità si contagiarono di sbadigli, e facce ebeti ed assenti si sostituirono ai sorrisi di qualche ora prima. Eravamo come sospesi in uno spazio ed in un tempo che non esistevano e che sembravano dilatarsi all’infinito, secondo una metrica incomprensibile alle nostre menti occidentali, abituate ai ritmi nevrotici e frenetici delle grandi città.
La montagna, col suo incedere lento, ci prendeva le misure, e noi stavamo perdendo la sfida.
Fra un calo di coscienza e il successivo mi dedicai alla studio della storia di Machu Picchu.
Negli anni trenta del XVI secolo, i conquistadores spagnoli guidati da Francisco Pizzarro il “sanguinario”, arrivarono in Perù, assetati di nuove terre e pronti alla razzia. Erano come dei cani da caccia avidi e rabbiosi, lanciati all’inseguimento di una bestia inerme e stremata. Riconoscevano l’autorità del loro padrone, e gli obbedivano ciecamente. A quel tempo la regione inca già soffriva per innumerevoli guerre intestine, e l’impero del Sole era in netta decadenza, pallida ombra di un passato glorioso. Ciò facilitò il lavoro degli spagnoli che non fecero altro che dare il colpo di grazia ad una civiltà sull’orlo del collasso. Le armi europee tuonando e sputando fuoco, si fecero strada fra la giungla, vincendo facilmente le battaglie, e sconfiggendo uno dopo l’altro tutti gli imperatori amerindiani. Uno di questi Manco Capac, abbandonò la capitale Cuzco e ripiegò nelle Ande. Lì fondò una nuova città, la mitica Vilcabamba, in cui lui ed i suoi sudditi vissero indisturbati per decenni.
Vilcabamba non fu mai scoperta e divenne un miraggio per numerosi archeologi moderni. Fra questi c’era Hiram Bingham, che nel 1911 organizzò una spedizione in Perù. Iniziò la sua ricerca partendo dalla città di Cuzco, e vagò per settimane seguendo il corso del fiume Urubamba, passando a tappeto tutta la foresta. Un giorno finalmente incontrò un contadino del posto che si offrì di condurlo presso delle antiche rovine poste in cima ad una montagna, e che egli indicava come “l’antico picco”. Fu così che Bingham scoprì Machu Picchu, pensando di essere finalmente giunto nella mitica città perduta dell’imperatore Capac, la sua personale El Dorado.